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Fallaci-Terzani dieci anni dopo.

Rileggevo lo scambio epistolare tra Fallaci e Terzani dopo i fatti dell’ 11 settembre 2001. Quando lessi queste parole per la prima volta avevo tredici anni. Oggi mi fanno un effetto tutto diverso, mi piacerebbe sapere la vostra. Quindi ecco, da una parte un fiume in piena, Oriana Fallaci; dall’altra un uomo che mi fa pensare alla forma geometrica esatta del cerchio, Tiziano Terzani.

La rabbia e l’orgoglio
Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), viveva buona parte dell’ anno a Manhattan.

Introduzione di Ferruccio de Bortoli
Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte dell’ anno a Manhattan. Non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno. Non dà mai interviste. Tutti ci hanno provato, nessuno c’ è riuscito. Isolata. Ma la storia e il destino hanno voluto che il centro della moderna apocalisse si aprisse, come una voragine dantesca, poco distante dalla sua bella e letteraria abitazione. L’onda d’ urto di quella mattina dell’ 11 settembre ha sconvolto anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto inconsueto del quale sembra meravigliarsi… Lo sguardo è dolce e insieme feroce. Oriana lavora da anni a un’ opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. «Su ogni esperienza lascio brandelli d’ anima», aveva scritto qualche anno fa. E’ ancora vero, verissimo. Pensieri forti. Dirompenti. Su cui ragionare e riflettere. Sull’ America, sull’Italia, sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente quel che dice sulla Patria). Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal cuore, o meglio dal cervello attraverso il cuore. «Qualcuno queste cose doveva dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non voglio riaprirla», sbotta. I suoi soliti artigli. Farà discutere. Eccome

La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci
Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’ altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’ una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It’ s good to be angry, it’ s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l’ ho vissuta io, quest’ Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella.
? Leggi gli articoli di Oriana Fallaci nell’archivio del Corriere
Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d’ un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L’ ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l’ audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull’ obiettivo, si getta sull’ obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l’ audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l’ aereo s’ è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro. Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’ aria. Sì, sembravano nuotare nell’ aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf!
Sai, io credevo d’ aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l’ ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d’ un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s’ è fusa, s’ è sciolta. Per il calore s’ è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m’ è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C’ era davvero, quel silenzio, o era dentro di me? Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento. Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico City, quella dove anch’ io mi beccai un bel po’ di pallottole, di morti ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono nell’ obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci voleva un’ eternità. Fiamme permettendo.
Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila…?). Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l’ intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati.
Che cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l’ arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente.
Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l’ erano fatta scattare prima d’ andar a morire, quella fotografia, e prima d’ andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole… Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione che avemmo durante quell’ incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.
Preferisco parlare dell’invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all’America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d’ Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi. L’ Unione Sovietica, i paesi satelliti dell’ Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l’Iraq, l’Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l’ Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell’ Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L’ unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo. L’ aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di «se»: è sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l’ audio non funzionava, ci fosse quella sull’ attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l’ America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell’ America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda. Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti.
Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall’ Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce d’ iscriversi a un’ Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell’ acqua e scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall’ Fbi va al di là d’ ogni limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l’ hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l’ hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all’ isteria). Quel Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent’ anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d’ una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.
Quando ci siamo incontrati t’ho visto quasi stupefatto dall’eroica efficienza e dall’ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato quest’Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’ Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi), l’America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito dell’eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno incominciando da se stessa. E’ un sindaco degno d’ un altro grandissimo sindaco col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l’ incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C’ è nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S’ è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E’ malato come me, pover’ uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa finta d’ essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece… Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all’ attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle.
Quanto all’ ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s’ era stretto intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di Hitler e l’ Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L’ avevo annusata, sì, dopo l’ assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d’ un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l’ America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l’ ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all’ unanimità d’ accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se l’Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l’Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’ interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano… Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l’ opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’ opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’ opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi d’ essere esausto, non d’ essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di mezz’ età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola… L’ avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l’ ha organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la Patria…
In inglese la parola Patria non c’ è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land,Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c’ è. L’ aggettivo Patriotic c’ è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell’ America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all’ Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c’ è una partita internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia. Eh! C’ è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè macinato.
Il fatto è che l’America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell’anima, il bisogno d’avere una patria, e dall’ idea più sublime che l’ Uomo abbia mai concepito: l’ idea della Libertà, anzi della libertà sposata all’ idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l’ idea di libertà non era di moda. L’ idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l’ Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell’ Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l’ Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell’ idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s’ eran letti Aristotele e Platone, che in latino s’ eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l’ eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l’ italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d’ un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all’ autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all’ Inghilterra. Fecero la guerra d’ indipendenza, la Rivoluzione Americana. Bè… Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell’ anima, il bisogno d’ avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all’ uguaglianza.
La Dichiarazione d’ Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident… Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v’ è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi…». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale dell’ America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d’ esprimere le proprie individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame. Bè, secondo me l’ America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d’ Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c’ è nulla di più forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l’ America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell’ Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po’ e gli dia una mano.

Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’ andar contro corrente cioè d’ apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’ annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci.
Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri… Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’ importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono. Da vent’ anni lo dico, da vent’ anni. Con una certa mitezza, non con questa passione, vent’ anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il «Corriere». Era l’articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi, d’ una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d’ una laica senza tabù. Ma era anche l’ articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po’ troppe. Feci un ragionamento che suonava press’ appoco così, vent’ anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v’ informo che Dante Alighieri mi piace più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!». Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto quell’ insulto me lo presi anche quando i sovietici invasero l’ Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi del Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo bene. E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d’ essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un vizietto a cui s’ erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura dell’ Unione Sovietica riempivan di armi l’ eroico-popolo-afghano. Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall’ Afghanistaaaan! I-russi- devono-andarsene-dall’ Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati dall’ Afghanistan: contenti? E dall’ Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari.
Si dice che la nuova strage è inevitabile perché l’ Iraq gli fornisce il materiale. Si parla di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà… Contenti? Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l’ America è lontana, tra l’ Europa e l’ America c’ è un oceano… Eh, no, cari miei. No. C’ è un filo d’ acqua. Perché quando è in ballo il destino dell’ Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L’ America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l’ America, crolla l’ Europa. Crolla l’ Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’ alleanza militare. Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale. Una visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi inconfessabile, ma non s’ è sbilanciato. Durante l’ intervista alla Cnn ben quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un’ anguilla. Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la paura della guerra, in ogni paese d’ Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna… Ma in Italia dove le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno.
Mi spieghi, signor cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i figli di Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no. Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla guerra, l’ ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a me sembrano masochisti.

Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c’ è Omero, c’ è Socrate, c’ è Platone, c’ è Aristotele, c’ è Fidia, perdio. C’ è l’ antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della Democrazia. C’ è l’ antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C’ è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell’ amore e della giustizia. C’ è anche una Chiesa che mi ha dato l’ Inquisizione, d’ accordo. Che mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d’ accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c’ è il Rinascimento. C’ è Leonardo da Vinci, c’ è Michelangelo, c’ è Raffaello, c’ è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del Nabucco.
E infine c’ è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l’ automobile, l’ aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di questo pianeta con l’ elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all’ altra cultura che c’ è? Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya… I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano.
Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell’ Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Del resto lo dice anche Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come la mettiamo con la storia dell’ Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente? Come la mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon guardare attraverso una fitta rete posta all’ altezza degli occhi? Come la mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico. Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al mondo c’ è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all’ altezza degli occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò io a impedirglielo.
Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è vario». Ma se pretendono d’ imporre le stesse cose a me, a casa mia… Lo pretendono. Usama Bin Laden afferma che l’ intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’ Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando gestiva l’ Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso. Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in Giordania, in Libano, e a casa sua.
Cioè in Italia. Lo ha conosciuto, ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme. Io non dimentico mai quel che mi accadde all’ ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai con le unghie smaltate di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi tagliare a loro… Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l’ operazione nell’ automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l’ interprete me lo impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi all’ ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l’ ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata dall’ asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d’ un tratto la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v’ era solo un modo per non finire fucilati: sposarsi. Firmare l’ atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l’ interprete aveva una moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola e nient’ affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo finir fucilata ossia perdere l’ intervista con Khomeini. In tal dilemma mi dibattevo e… Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca.
Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo so, lo so: in tutti i paesi d’ Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato a morte s’ era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò. Comunque il punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate. Oh, potrei continuare all’ infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo l’ intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l’ anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata appena scesa dall’ aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta. Era il periodo degli ostaggi americani… potrei parlarti di quel Mujib Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente! I soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico dell’ Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio ragionamento. Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale. E visto che intimiditi dall’ impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli.
Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d’ essere un’ ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di sdegno io te l’ ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A volte invece di quelle vedevo l’ immagine per me simbolica (quindi infuriante) della gran tenda con cui un’ estate fa i mussulmani somali sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città. Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’ Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo dell’ Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell’ acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d’ oro del Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo.
E, grazie alla consueta incoscienza dell’ Enel che alle nostre opere d’ arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d’ un muezzin che puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l’ obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene. Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere», ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio ragione…». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che parlano con l’ accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì». Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d’ Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l’ ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un’ immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro.
Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell’ arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti dov’ erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia dell’ Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale, all’ entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un’ antica signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista, razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?». Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l’ avete un po’ d’ orgoglio, pecoroni?». Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino che fece l’ Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia.
Quella Venezia dove i piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce» e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo della politica d’ ogni menzogna e d’ ogni colore li corteggia nella speranza d’ ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c’ è lo stesso Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d’ opera-di-cui-v’ è-bisogno». E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale’ s. Si vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono al bisogno della mano d’ opera che l’ ex proletariato italiano non fornisce più? Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte al giorno? E poi c’ è un’ altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto? Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’ avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio? Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c’ è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio. E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto, chi paragona l’ ondata migratoria che s’ è abbattuta sull’ Italia e sull’ Europa con l’ ondata migratoria che si rovesciò sull’ America nella seconda metà dell’ Ottocento anzi verso la fine dell’ Ottocento e all’ inizio del Novecento. Ora ti dico perché. Non molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio di cui l’ Italia s’ è onorata in pochi decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di fibra partiva per l’ America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici. Il primo è che nella seconda metà dell’ Ottocento l’ ondata migratoria in America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m’ ha colpito il finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono. Ch’ io sappia, in Italia non c’ è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi.
Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi, se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti. Da noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che cercavano di rimandarli indietro. Più che d’ una emigrazione s’ è trattato dunque d’ una invasione condotta all’ insegna della clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa. È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’ anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’ Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi! In quelle piazze ve n’ erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s’ accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto. Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio di elementi. Uno: l’ America è un continente. E nella seconda metà dell’ Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via all’ immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava negli stati dell’ Est ossia gli stati dalla parte dell’ Atlantico, e nel Mid-West c’ era ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh, l’ Italia non è un continente. È un paese molto piccolo e tutt’ altro che spopolato. Due: l’ America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’ Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità culturale non è ancora ben definita.
L’ Italia, al contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’ entro. C’ entro, ahimé c’ entro. Che mi piaccia o no, c’ entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all’ Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos’ è l’ architettura, cos’ è la scultura, cos’ è la pittura, cos’ è l’ arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos’ è il Bene, cos’ è il Male, e perdio… Ecco: vedi? Ho scritto un’ altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’ esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m’ accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m’ ha imposto per secoli incominciando dall’ Inquisizione che m’ ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d’ accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica.
La bisnonna valdese non l’ ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand’ ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de’ Benci a Firenze, e… Dio, quanto m’ annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso… Mi mancava perfino il puzzo dell’ incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c’ erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v’ è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer). Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’ altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c’ è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l’ Italia. E io l’ Italia non gliela regalo.

Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l’ ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all’ America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L’ America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all’ Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m’ è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l’ America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l’ ho già, Sir. La mia Patria è l’ Italia, e l’ Italia è la mia mamma. Sir, io amo l’ Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è l’ italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi che quando ascolto l’ Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d’ Italia, l’ Italia-s’ è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso solo: è l’ inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a parte, s’ intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell’ Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l’ Unità d’ Italia non l’ avremmo fatta), me la tengo come l’ oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati.
Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l’ Unità d’ Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l’ ho fatta anch’ io. Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l’ anno dopo mi congedarono dall’ Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline. Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l’ Italia d’ oggi. L’ Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant’ anni e che si appassionano solo per le vacanze all’ estero o le partite di calcio. L’ Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L’ Italia squallida, imbelle, senz’ anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L’ Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti».
Non è nemmeno l’ Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è nemmeno l’ Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell’ ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D’ Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’ Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una spaghettata e l’ altra mi malediranno, mi augureranno d’ essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un’ Italia ideale. È l’ Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall’ Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un’ Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest’ Italia, un’ Italia che c’ è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem. Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t’ avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l’ ho detto. La rabbia e l’ orgoglio me l’ hanno ordinato. La coscienza pulita e l’ età me l’ hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
Oriana Fallaci

di Tiziano Terzani

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia’ grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e’ in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.

Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La’ morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso’ di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualita’.

Pensare quel che pensi e scriverlo e’ un tuo diritto. Il problema e’ pero’ che, grazie alla tua notorieta’, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora e’ un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile e’ appena cominciato, ma e’ ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita’ perche’ certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu’ bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita’ delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu’ difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finche’ l’uomo non si mettera’ di sua volonta’ all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara’ per lui alcuna salvezza”.

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e’ nella tua rabbia accalorata, ne’ nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu’ accettabile, “Liberta’ duratura”.

O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e’ mondo non c’e’ stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara’ nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo e’ nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita’ di nulla, tanto meno all’inevitabilita’ della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu’ tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu’ determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu’ terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira’ necessariamente una loro ancora piu’ orribile e poi un’altra nostra e cosi’ via.

Perche’ non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.

Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanita’ a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita’. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per se’ un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore e’ Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Universita’ di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e’ che la politica, nella sua espressione piu’ nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu’ profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessita’ di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta’.

Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che e’ anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima citta’. La vendetta non e’ degli uomini, spetta a Dio.

Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perche’ col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e’ servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita’ della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi’, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pieta’ sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perche’ vorrei capire che cosa li rende cosi’ disposti a quell’innaturale atto che e’ il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.

Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche’ io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana e’ semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’e’ raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e’ il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle e’ uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e’ l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e’ neppure “un attacco alla liberta’ ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Universita’ di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”.

Cosi’ si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, e’ evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’e’, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e’ stata la trappola.

L’occasione per uscirne e’ ora.

Perche’ non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche’ non studiamo davvero, come avremmo potuto gia’ fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?

Ci eviteremmo cosi’ d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu’ disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.

Magari salviamo cosi’ anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa e’ stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e’ legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da li’ nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e’ impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.

E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita’ di proteggere la liberta’ e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta’ che rendono l’America cosi’ particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi’ come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha gia’ sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare e’ una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e’ il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e’ come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’e’ stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse gia’ paura. Capita cosi’ di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e’ un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici – me ne rendo conto – e’ un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu’ l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta’ combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.

Ma questo ci impone anche grandi responsabilita’ come quella, non facile, di andare dietro alla verita’ e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e’ complicato. Ma non si puo’ esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita’ di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.

Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e’ l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che gia’ studiano l’inglese e magari il giapponese?

Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e’, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita piu’ lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu’ in la’ degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu’ di tutti gli altri messi assieme”.

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo’ una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago’ e lui si salvo’ a malapena. Ci provo’ una seconda volta, ma si ammalo’ prima di arrivare e torno’ indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso’ le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perche’ sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perche’, dopo una chiacchierata che probabilmente ando’ avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio’ che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlo’ di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita’ e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla puo’ voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo piu’ umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”.

Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

“Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi piu’ capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento piu’ civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

Giusto in tempo la morte risparmio’ a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.

Non li risparmio’ invece ad Einstein, che divenne pero’ sempre piu’ convinto della necessita’ del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanita’ un ultimo appello per la sua sopravvivenza:

“Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto”.

Per difendersi, Oriana, non c’e’ bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’e’ bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.

M’e’ sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia’ i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta’ di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita’ commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?

“Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si’.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere e’ il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; e’ l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e’ il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero’ accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e’ piu’ conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu’ i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non e’ relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo’ esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.

Molto meno convinti pero’ sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e’ diffuso cosi’ come e’ diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.

“Dateci qualcosa di piu’ carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.

“Un mondo giusto non e’ mai NATO”, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia’. Un mondo “piu’ giusto” e’ forse quel che noi tutti, ora piu’ che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita’ ed ispirato ad un po’ piu’ di moralita’.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche’ ora tornano comodi, e’ solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita’ internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu’ reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne’ il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne’ il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilita’ del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara’ presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi” di liquidare qua e la’ nel mondo le persone che la Cia stessa mettera’ sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovra’ ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta’ mi fa male e mi intristisce. Tutto e’ cambiato, tutto e’ involgarito. Ma la colpa non e’ dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta’ bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu’ piccola e piu’ povera. Ora e’ un obbrobrio, ma non perche’ i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche’ i filippini si riuniscono il giovedi’ in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.

E cosi’ perche’ anche Firenze s’e’ “globalizzata”, perche’ non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e’ scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo piu’.

Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle piu’ divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li’ maestose ed immobili, simbolo della piu’ grande stabilita’, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura e’ una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu’ grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu’. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passera’ anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.

Perche’ se quella non e’ dentro di noi non sara’ mai da nessuna parte.

  • UN ARTENESE

    ma un articolo più corto, no ? Cosi non lo legge nessuno, anche se è interessante.

  • martina

    Ma non è un articolo! E’ un collage di articoli.

  • http://jozmile.info jozmile

    In effetti il post così è lungo, ma sarebbe stato lo stesso se al posto del copia/incolla ci fossero stati i link. Inoltre, se l’argomento interessa, si arriva alla fine e si tirano le conclusioni.

    Io credo che Oriana Fallaci avrebbe avuto un’idea diversa dopo 10 anni, visto come si è evoluta la situazione in Afghanistan e in Iraq. Mi appare oggi il delirio di chi è accecato dalla rabbia e non riesce ad analizzare le cause di quell’attacco, che non sono i vaneggiamenti di un miliardario pazzo, ma dalla politica estera a stelle e strisce dalla seconda guerra mondiale in poi. Anche ora mi sento più vicino al punto di vista di Terzani. Dopo l’11 settembre l’america e il mondo occidentale ha continuato a sbagliare. Non si è cercata la causa, si è preteso un rimedio. E’ un cane che si morde la coda.

  • la Brebis noire

    Il post in effetti è davvero un pò troppo lungo Martina, ho dovuto leggerlo in più riprese purtroppo, ma non ho potuto fare a meno di arrivare fino in fondo.
    Questo perchè io 10 anni fa, più per curiosità che altro, quel “la rabbia e l’orgoglio” l’ho letto (ma notate bene non l’ho acquistato).
    Ed è stato come ricevere un pugno fortissimo nello stomaco..e poi aver voglia di vomitare!
    E’la stessa identica sensazione ho provato nel rileggere queste considerazioni.
    E’ un delirio continuo a mio avviso, un’invettiva indecente e insensata contro il “diverso”. L’unica spiegazione che mi sono data e che continuo a darmi (oltre alla demenza legata alla malattia o all’età)al motivo che abbia portato alla pubblicazione di quell'”opera” è stata di tipo economico..sarei davvero curiosa di avere i numeri, di sapere quanto ha venduto e quanto ha guadagnato la “giornalista/scrittrice” in questione.
    Ogni commento è superfluo, non sarebbe comunque sufficiente a rendere idea dell’indignazione che quelle parole hanno provocato.
    Solo una frase di Terzani è sufficiente, e a questa non aggiungerei altro: “il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali”.

  • la Brebis noire

    ..dimenticavo..sempre che di “terrorismo” si possa parlare!

  • martina

    Brebis Noire,
    Fallaci ti tira dentro, che importa quanto sia lungo questo post?
    Sono felice che sia arrivata fino alla fine.
    Siamo d’accordo sui pugni allo stomaco e sul dolore quasi fisico che provocano le parole di Oriana Fallaci. Non credo l’abbia fatto per soldi, però.

    L’altra mattina leggevo anche Fallaci intervista Fallaci. Faccio fatica a non pensare ad una sua forma di razzismo.

  • http://jozmile.info jozmile

    @martina più che razzismo…lo chiamerei rincoglionimento da 36esimo piano di un grattacielo di Manhattan…