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AC/DC Udine 19 Maggio 2010. Grazie.

21 maggio 2010 visto 1.581 volte 2 Commenti Scritto da jozmile

666 Km da Artena a Udine. E quando le luci dello stadio si spengono e si accende l’agghiacciante urlo della folla ti fondi con il resto del buio e dei tuoi vicini, chiunque essi siano. Inizia l’intro e tutte le cellule del tuo corpo sono catalizzate da quegli schermi, sopra un tappeto di cornette rosse lampeggianti. Non importa più cosa/come sei, non importa il colore/odore della pelle, la lingua che parli e da dove vieni. Pochi minuti e  l’urlo cresce diventa boato improvviso quando si accende il palco. Il palco: luci, video, quattro maxischermo. Tutto a ingigantire le gesta di quei cinque sessant’enni scalmanati che ancora si sentono scolaretti. Sessant’anni. Con tutti gli acciacchi che una vita di eccessi comporta. Eppure te li vedi lassù, a urlare e a dimenarsi, con precisione svizzera e maniacale. E se ce ne vuole a venti o trent’anni a reggere quasi tre ore di concerto live, non riesci a immaginare cosa hanno dentro questi signori, per farlo a sessant’anni. Che non è droga, psicofarmaco, yoga o quant’altro: è energia vitale allo stato puro. Anzi, infernale. Perchè dopo aver venduto più di 200 milioni di dischi (Beatles vicini alla polverizzazione) in 37 anni di onorato servizio da hard rock stars, nel 2008 si fiondano in un tour che piano piano tra sold out e raddoppi è arrivato a 200 date live in 2 anni come se niente fosse. Dall’alto della loro posizione di Altissime Divintà dell’Hard Rock guadaganata a vendite a otto zeri, di assoli che hanno fatto e continuano a fare la storia del rock, di migliaia di watt sprigionati durante i live (non li vedremo a San Siro o all’Olimpico a causa delle limitazioni sui decibel e sulla durata dello spettacolo che la band non ha accettato e non accetterà mai), di litri e litri di sudore buttati a secchi sul palco (e non a miliardi di passaggi nei circuiti delle radio o delle tv musicali di cui godono le altre star) gli AC/DC ti travolgono con un muro di note stridule, tanto duro quanto regolare. Le vene ti si gonfiano di una linfa che ne viene diretta dagli inferi che li hanno partoriti. E quando Brian Johnson (63 anni, professione vocalist degli Ac/Dc, in sostituzione del compianto Bon Scott, morto nel 1980) intona Hell ain’t a bad place to be (“L’inferno non è un cattivo posto per vivere”, targata 1977) lo pensi davvero, se è riuscito a partorire questi cinque mostriciattoli. Ma non bisogna pensare agli AC/DC come ad adoratori del diavolo, come è stato fatto in passato. Ci raccontano della loro vita da ragazzacci scherzandoci su, di sesso e di donne soprattutto, ma anche di come è complicata la vita e di come è difficile arrivare in alto e raggiungere un’obiettivo, e di come ci si sente quando si è arrivati in cima. E lo raccontano come si sentono di  farlo, tra vertiginosi e infiniti assoli con radici blues conditi con tanta tanta tanta adrenalina, senza badare alle major discografiche o alle possibili vendite. Questi sono gli AC/DC, prendere o lasciare. Ed è questo il motivo della loro eterna giovinezza e del loro successo presso i fan.

Tra il pubblico ci trovi strani figuri che sembrano usciti dai filmoni anni ’80 o ’90, in cui i metallari erano descritti come capelloni sporchi col giubbotto di pelle stracciato pronti ad ubriacarsi con fiumi di birra scadente appena svegli e a far pipì ovunque. Ci trovi però pure gli impiegati, i dirigenti, gli scopini, le casalinghe, gli studenti, gli operai, i dottori… tutti. Ci sono poi quelli che seguono gli AC/DC da sempre e per nulla al mondo si perdono un live che passa vicino casa (dove il vicino casa quando si parla della band australiana significa almeno 700 chilometri e qualche confine nazionale da passare), quelli che hanno la maglietta del live del 1981 o del 2001 di Torino. C’è chi li sente dal 1974 e chi dal 2010, con una fascia di età che va dai cinquanta ai quindici anni. C’è chi addirittura ci va con i figli di tre, quattro, cinque anni, portati all’altare di un  battesimo rock, che difficilmente dimenticheranno (e a ragion del vero, non so se più con terrore o come lieto ricordo).

L’evento, il concerto, macina secondi preziosi. Ad ogni nuovo attacco, poche, pochissime parole dal palco. La bolgia si avvampa in una fiamma immensa, quando partono come una rasoiata le note di Back in Black, dell’ononimo album-tributo alla scomparsa di Bon Scott del 1980, uno dei brani più conosciuti nel mondo, dell’album che da solo ha venduto 50 milioni di pezzi (secondo album più venduto nella storia della musica, dopo un certo Thriller di Micheal Jackson, mica pizze e fichi). Il cuore dello stadio pulsa di energia accecante, Angus Young (alla chitarra solista) è uno scolaretto di 55 anni che inizia il suo show di corse, assoli, passi e dialoghi col pubblico: non lo fa tramite le corde vocali, ma tramite le corde della sua Devil Gibson SG 1968. Dietro di lui, il fratello, co-fondatore e vero leader della band, Malcom Young, definito la migliore chitarra ritmica del mondo, Phil Rudd, alla batteria e Cliff Williams al basso, rendono possibile la magia.

Il boato di ringraziamento non fa in tempo a chiudere questo mitico pezzo e l’ultimo assolo fulminante di Angus, che Brian Johnson riprende le redini di questa carozzona impazzita e lancia prima Big Jack, dall’album Black Ice, targato 2009, Dirty Deeds Done Dirt Cheap (1976) e infine l’esplosiva Shot Down in Flames da Highway to Hell, 1979. Ti ritrovi davvero sparato in un rito pagano. Lo vedi negli occhi che incontri, lo senti sulla pelle d’oca che hai tu e che hanno tante altre persone, migliaia. Lo senti nel cuore che  pulsa diretto nel tuo cervello, al ritmo di quell’impressionante muro di amplificatori che non stanno lì per fare caciara, ma per fanti sentire nel bel mezzo di una bolgia infernale.

La bolgia letteralmente impazzisce sotto le fulminanti  note iniziali di Thunderstruck (1990), ma la scaletta rallenta per far tirare il fiato. Ecco allora  Black Ice (ancora dall’utlimo album del 2009) e  The Jack, una ballata blues del 1975 sull’ennesima avventura sessuale che durante i live viene dilatata all’inverosimile,  in cui viene coinvolto tutto il pubblico e che si chiude con Angus Young in mutande.

Ma la locomotiva è pronta a riprende improvvisamente velocità, una campana scende dal cielo, Brian Johnson spicca un salto e la sbatacchia per benino: è Hells Bells (1980, tributo allo scomparso Bon Scott) seguita da  Shoot to Thrill (ancora da Back in Black, 1980) che esplodono nei timpani dei fan e li fà saltare per aria. Seguono War Machine (2009), e l’incredibile High Voltage (altro cavallo di battaglia dall’ononimo album del 1975). Su You Shook Me All Night Long, il brano che forse ha avuto più fortuna anche tra i meno fan, lo Stadio Friuli diventa un immenso dannato karaoke fatto di quasi cinquantamila voci che fanno vibrare gli spalti. E il karaoke non si spegne su T.N.T. (1975) e Whole Lotta Rosie (1977) con l’intramontabile e immancabile immensa bambolona gonfiabile sul palco.

Let There Be Rock (1977) è la ciliegina sulla torta e meriterebbe un concerto a parte: per la potenza intrinseca del testo, per il ritmo incalzante che ti fa muovere la testa come un forsennato e per l’infinito, orgasmico, incredibile, impossibile, incommensurabile, infiammabile, inesauribile, ininterrotto solo di Angus Young della stratosferica durata di 20 minuti. Puoi capirci tutto o neanche un’acca di musica, accordi, chitarre. E io faccio parte senza dubbio dei secondi. Ma guardare questo timido uomo di 1,57 metri a 55 anni vestito solo da un paio di pantaloncini e da sudore, mentre si fa più di cinquanta metri di palco avanti e indietro mentre armeggia su quello strumento anche con una sola mano, per venti minuti davanti una folla con la bocca spalancata e con le mandibole che cascano per terra è qualcosa che non puoi dimenticare. Lo vedi in piedi che si innalza al cielo su di un palchetto mobile circondato da pura luce, lo vedi che suona con la chitarra sopra la testa, lo vedi che tende la mano all’orecchio per sentire il boato del suo pubblico, lo vedi che si butta rantolante per terra, lo vedi correre eppure non saltare neanche una nota, meglio di un cd e lo vedi alla fine madido di sudore, distrutto ma subito pronto a ricominciare. Vallo a spiegare poi ai chi non c’è, cosa si prova, vallo a spiegare come un solo può farti piangere.

Sembra finita lì e invece no: è solo un’impressione. Pochi minuti di buio in cui senti il pubblico che richiama i propri dei (con mantra che non si sentono neanche per Springsteen e gli U2) e si è ancora in piena autostrada per l’inferno: Highway to Hell (1979) da l’ennesima mazzata alla platea e la solita For Those About To Rock (1981) che è il brano che da trent’anni chiude i live dei cinque scatenati canguri, ti abbatte con i dodici cannoni che sparano (a salve) sulla folla.

Ora è davvero finita. Pensi a quanto sarebbe bello se l’eterna giovinezza e la diabolica spensieratezza degli AC/DC  ti accompagnasse per tutta la vita. Loro per ora sono riusciti a sconfiggere la vecchiaia senza botulino o Xanax. Ci riuscieremo anche noi?

Questo post è dedicato ad un amico che purtroppo non ha potuto condividere la gioia di un concerto live degli AC/DC per una più giusta causa. Amico, in questo momento sei davvero all’Inferno. Ma ovunque tu sia e qualsiasi cosa tu stia facendo, sappi che la forza immortale degli AC/DC sarà sempre con te. Questo video è per te.

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2 Commenti »

  • n. 1 - ErPeggio ha detto:

    Grande Amigos!
    Veramente bello l’articolo… hai descritto come meglio non si poteva!
    Rock’n'roll!!!!!!!!!!!!

    • n. 2 - apheniti ha detto:

      Però non hai raccontato della fantastica esibizione delle Vibrazioni in apertura.. Uff, tanto lo sappiamo che sei andato solo per loro. :p

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