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Riprendersi lo spazio: cosa succede in Turchia e cosa c’entra con noi

Riprendersi lo spazio: cosa succede in Turchia e cosa c’entra con noi

Questa storia inizia un giorno di maggio del 2013, il 27, quando un gruppo di giovani decide di occupare il parco simbolo della città di Istanbul, il Gezi park, perché non vuole venga distrutto per far posto a un centro commerciale.
Come fa una piccola, preziosa protesta a diventare grande e far muovere persone diversissime in molte città della Turchia? Bisogna capirlo, perché è esattamente ciò che è successo. Da qui è partita una mobilitazione durata diciotto giorni, piegata solo dalla repressione della polizia del primo ministro Erdogan.

Chi sono i manifestanti, e perché protestano.
Ho posto queste e altre domande alla documentarista e ricercatrice Nagehan Uskan, che abita a Istanbul e sta vivendo in prima persona le vicende di cui parla. Si tratta di un “movimento pubblico”, mi ha detto, che mette insieme persone con storie differenti: i mussulmani anticapilisti, le donne femministe socialiste, i lgbt, i curdi, il partito Repubblicano del Popolo, i sindacati. Sono mossi dall’avversione per lo stampo conservatore e neoliberista della politica del governo di Ankara. Non si tratta di una lotta dei laici contro i religiosi. Parlarne in questi termini è Operare una riduzione, Semplificare invece di provare a capire davvero. Nagehan me lo ha descritto come un problema “universale, del capitale che vuole occupare spazi pubblici”, che si somma a quello dell’autoritarismo del premier turco che sta mortificando le libertà personali.
È del 24 maggio scorso, infatti, l’approvazione di una legge che vieta di vendere alcolici vicino a scuole e moschee; come sono di questi giorni le voci della possibilità di vietare comportamenti “moralmente inaccettabili”, tanto che il quotidiano laico Milliyet ha parlato di “sharia moderata”. Alle donne, per esempio, si chiede “di fare almeno tre figli: per questo vuole vietare l’aborto, e le pillole contraccettive”.

Dal 2002, anno del suo insediamento, Recep Tayyp Erdogan, leader del partito Giustizia e Sviluppo, è stato riconfermato fino a oggi. La Turchia sembra essere spaccata – semplificando – tra chi lo sostiene, la popolazione rurale, e chi sta chiedendo le sue dimissioni, la popolazione urbana.
Lui, dalla sua, da dieci anni a questa parte ha lentamente compromesso il potere dell’esercito turco, storico padre del potere secolare da Ataturk in poi, più volte intervenuto negli ultimi quarant’anni – l’ultima volta nel 1997 – a ripristinare laicità e ordine. Per approfondire leggete qui.

Erdogan ha portato avanti una politica di liberalizzazioni e privatizzazioni da una parte, e tentativi di recuperare l’identità islamica dall’altra. Se le prime hanno portato una crescita economica innegabile, i secondi sono la causa di squilibri sociali.
Ecco cosa spiega le ragioni di chi ha deciso di esercitare la propria libertà d’espressione scendendo in piazza a chiedere le sue dimissioni.
Ecco come una protesta piccola per una grande causa (la difesa di seicento
alberi di un parco pubblico) può trasformarsi in una grande manifestazione antigovernativa.
Molte le città coinvolte nella protesta: c’è Istanbul, poi c’è Ankara, “dove la polizia ha sparato a un ragazzo, come a Antakya. Ci sono Smirne, Dersim.
Spray urticante, pallottole di gomma, idranti e gas lacrimogeno. Questi i
mezzi con i quali la polizia turca ha reagito fin dal 31 maggio. i numeri dei feriti e degli arrestati è alto ed è in costante aggiornamento. I morti sono quattro. Tale violenza – raccontata da moltissimi tramite Twitter, che è stato un canale di trasmissione importante – fa presto a sembrare ingiustificata, specie quando leggo dell’atmosfera di festa che c’era a Gezi Park prima delle cariche e delle ruspe che hanno sgomberato il parco in una notte.

Sul destino di Gezi park si è già pronunciato il tribunale di Istanbul, è arrivata la sentenza definitiva che blocca la sua distruzione. Il primo ministro ha annunciato un referendum per far decidere al popolo:
sembra una beffa, a giudicare dalla violenza usata nelle ultime ore contro quella parte della popolazione turca che aveva deciso di riprendersi uno spazio.
Credo che al centro di tutto stia proprio la volontà di Riprendersi lo spazio, per evitare che perda la sua dimensione pubblica di bene comune. Occuparlo, riappropriarsene: per fare in modo che non smetta di parlare e raccontarci chi
eravamo e chi siamo diventati. Per darci ancora il senso.
Allora la spinta dei ragazzi di Gezi Park e di Piazza Taksim è anche la nostra; è questo il filo che ci lega a loro.
È per questo che a loro dedicheremo, con una menzione speciale, la maglia dell’edizione duemilatredici del nostro Live Artena.

Vi lascio con un comunicato diffuso una manciata di giorni fa da Gezi Radio:

[...] Vogliamo che gli spazi pubblici rimangano tali. abbiamo il diritto di discutere, esprimerci, riunirci e manifestare. Erdogan non ci ha offerto
questa libertà, ma ci ha proposto un referendum e contemporaneamente ci ha mandato la polizia contro.
Il referendum non è da prendere in considerazione perché lo spazio pubblico è un diritto di tutti.
Non si possono prendere decisioni individuali su un diritto. Lo spazio pubblico è un bene comune.

Noi non siamo vittime. Per piacere non focalizzatevi solo sulla violenza della polizia.
Quel che fanno è terribile ma noi siamo qui per portare avanti una lotta, una lotta perché non vengano fatti profitti sui beni comuni,
una lotta al fianco dei nostri fratelli greci che manifestano contro l’oscuramento della tv pubblica,
una lotta al fianco dei nostri fratelli italiani no tav che resistono in valle contro grandi speculazioni sulla terra,
e al fianco dei nostri fratelli a San Paolo.

Siamo cittadini, il nostro dovere è difendere i beni comuni.
Non ci sono diritti su cui si può contrattare.

Gezi radio da Piazza Taksim

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(“Polizia fascista”, “vendi simit, ma vivi con onore”)
p.s.
Simit è il “cibo che costa di meno e che si vende in ogni angolo di istanbul”

Grazie a Nagehan Uskan, senza la quale non sarebbe stato possibile scrivere questo articolo.

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